giovedì 9 luglio 2009




La testimonianza diretta di due giornalisti frre lance che sono tornati da poco dall'Iran. Per motivi di sicurezza non pubblichiamo i loro nomi


IRAN/I figli della Rivolta


Teheran è una ferita aperta su cui il governo iraniano continua a versare sale e il bruciore è insopportabile. Teheran è il segno evidente di una spaccatura che attraversa l'Iran dividendo in maniera pericolosamente netta la popolazione delle grandi città da quella dei piccoli paesi disseminati sullo sterminato territorio nazionale. Teheran, come trenta anni fa, è la necessità di un cambiamento, un'istanza di progresso e di libertà che il governo teocratico cerca di affogare nella violenza e nel sangue.
Siamo arrivati nella capitale dieci giorni prima delle elezioni e fin da subito abbiamo potuto vedere l'energia che animava la vita pubblica della città. Le strade della capitale erano il teatro di quella che sembrava una festa permanente più che una campagna elettorale. La gente per strada paralizzava la città sfilando in caroselli di musica e danze. Nessuna violenza tra le opposte fazioni, nessuna aggressività. Un trionfo di pubblica vitalità, la sensazione che si festeggiasse, in primis, la possibilità stessa di poter esternare le proprie idee e il proprio entusiasmo.

Il governo si è guardato bene dall'autorizzare quello che con il passare dei giorni è diventato un fiume in piena e poi una marea di partecipazione alla vita politica del paese, altro non ha potuto che osservare con stupore l'entità di un fenomeno che vedeva, per la prima volta in trenta anni, la gente riversarsi spontaneamente per le strade reclamando uno spazio di partecipazione e di condivisione.
Noi non parliamo persiano e non siamo capaci di leggerlo ma a poche ore dall'atterraggio un colore, il verde, e un suono, "Moussavi" ci accolgono in quella che è, a tutti gli effetti, una città in festa, ansiosa di un cambiamento.
Nessuno in Iran ha creduto che Moussavi potesse essere una radicale soluzione ai problemi del paese, ma l'agognato avvento del leader riformatore era considerato come il primo indispensabile passo per quello che avrebbe potuto essere un nuovo corso della repubblica islamica. Non è una rivoluzione che i giovani della capitale chiedono a viva voce, ma un'alternativa, uno snodo che consenta al paese di procedere su un altro binario, in un'altra direzione.

Ventiquattro ore dopo le elezioni Teheran piomba nel silenzio. Prima arriva la delusione, cocente; poi i dubbi, gli interrogativi leciti su numeri e tempi. Le elezioni del 12 Giugno sono state le più partecipate della storia della repubblica Islamica ma contemporaneamente quelle con lo spoglio più veloce. L'ufficiale sostegno della guida spirituale al presidente Ahmadinejad e la fretta con cui viene proclamata una vittoria "pulita" trasformano lo sconforto in rabbia e indignazione. Mentre la guida spirituale si affretta a vietare qualsiasi forma di protesta contro il risultato elettorale, il popolo iraniano fa per la prima volta in trent'anni pratica di disobbedienza e, spronata dallo sconfitto leader dei riformisti, si riversa in strada contestando i brogli, chiedendo nuove elezioni e denunciando a gran voce la violazione del più elementare dei diritti repubblicani: quello di poter decidere i propri rappresentanti. Il 14 giugno il risultato è ormai ufficiale e irrevocabile. Il giorno seguente una folla oceanica si riversa in strada: non ci sono solo i sostenitori dello "sconfitto" leader riformista ma anche persone che non hanno neanche votato. Non ci sono solo i giovani, quelli che sono stati definiti prima teppisti e poi terroristi e mokhareb (nemici di Dio e quindi passibili di pena capitale), ma donne e anziani che si sentono traditi, defraudati della loro possibilità decisionale.
C'è chi ha parlato di un milione di persone in corteo, chi ha parlato di due o più, ci è impossibile stabilire una cifra attendibile ma quella folla ha insegnato al governo la paura, ha mostrato chiaramente un dissenso attivo e deciso che sfida il terrore con cui il governo tiene quotidianamente a bada la popolazione. La sensazione è che la gente abbia risposto in maniera convinta a quello che è stato percepito come un affronto, un tradimento. Il corteo, pacifico, composto di gente armata solo di slogan e coraggio è stato oggetto di una repressione brutale, la cifra di sette morti dichiarati dal governo e dalla stampa appare, dalle testimonianze dirette che abbiamo raccolto, ottimistico anche se ci è impossibile stabilire un numero, seppur orientativo. Ci sembra lecito interrogarci sulla natura stessa di un governo che per legittimarsi ha bisogno di massacrare cittadini inermi, che per ratificare un risultato elettorale risponde con brutali pestaggi e spara su un corteo di cittadini che altro non chiede che trasparenza e giustizia. Ciò che si scorge, oltre la manifesta dimostrazione di forza e violenza, è la paura, una crepa che mette in luce una palese fragilità.
Il clima cambia completamente in città e noi, entrati nel paese come semplici turisti impariamo, in piccola parte, la paura che qui nella "repubblica" islamica è pane amaro e quotidiano. Cerchiamo nel nostro piccolo di raccogliere testimonianze, di parlare con le persone, di capire i confini e l'entità di ciò che accade, "nessuno lo sa" ci rispondono, ma non c'è solo paura negli sguardi e nelle parole delle persone, c'è entusiasmo, eccitazione per quella che sembra un'occasione unica di crescita e di cambiamento. Il conflitto si intensifica, si generalizza, si dipana, e le istanze si stratificano senza amalgamarsi ma riunendosi seppur in modo confuso e scoordinato in un'ondata di dissenso che quotidianamente si infrange sul muro della repressione. Il governo si sente minacciato e minaccia, porta il buio in città, oscura i media, vieta ai giornalisti di documentare ciò che accade, rende inutilizzabili internet e telefoni per gran parte del giorno, arriva in certi casi a cessare la fornitura di energia elettrica. Quello che abbiamo visto nel buio è il coraggio, un coraggio che sembra sfiori l'incoscienza ma che in realtà è il risultato della consapevolezza e di una necessità impellente, quella di resistere.
Ogni sera fino a pochi giorni fa, quando siamo stati costretti ad abbandonare il paese, tra le 22 e le 22 e 30 la gente di Teheran si sposta sui tetti delle case per manifestare il proprio dissenso. Al grido di "Allah u Akbar" il popolo di Teheran tiene vivo il fuoco della rivolta, ribadisce il proprio diritto e la propria determinazione a manifestare dissenso, di casa in casa, di tetto in tetto le grida si inseguono, riempiono l'aria rinvigoriscono quanti si preparano di nuovo a scendere in strada, a sfidare il terrore.
Il 20 Giugno viviamo una tappa fondamentale della rivolta di Teheran, i manifestanti, organizzatisi grazie a facebook e a un incessante passaparola si riversano nuovamente in strada, sono diretti a Enquelab, luogo storico dove è cominciata la rivoluzione del '79, i manifestanti sono come sempre disarmati ma determinati a raggiungere la piazza per il suo grande significato simbolico. Chi, come il governo di Teheran, si è sfamato da sempre di simbologia intuisce la forza e il pericolo che dal simbolo scaturiscono, la risposta è netta e decisa, il risultato è una carneficina. Ancora una volta apprendiamo che le cifre ufficialmente dichiarate (19 morti ndr) sono una valutazione ottimistica e poco veritiera. Parliamo con un'infermiera di pronto soccorso impiegata in un grande ospedale nei pressi di Enquelab, le cifre che ci fornisce sono scioccanti, a maggior ragione pensando che si tratta di un solo presidio ospedaliero: 36 cadaveri e 140 feriti di cui 80 in prognosi riservata. La notte del 20 è la più dura dal giorno delle elezioni e anche la più lunga, gli scontri si protraggono fino alle 07.00 del mattino ma paradossalmente lo strenuo tentativo di difendere un simbolo ne fornisce uno nuovo di una potenza sconcertante, gli occhi di Neda, i suoi ultimi atroci istanti di vita, un'immagine che fa il giro del mondo e dà un'idea degli orrori che si consumano nelle strade della capitale.
Enquelab ci è sembrato, negli occhi e nelle testimonianze dei sopravvissuti, un punto di flessione nella rivolta della capitale, una cicatrice e un monito che è sembrato potesse arrestare la rabbia sostituendola con un legittimo terrore. Come sempre è difficile parlare di cifre ma uno studente di Esfahan ci riferisce di centinaia di arrestati trasportati da Teheran e detenuti all'aperto, nei parcheggi, "tutte le carceri del paese sono sovraffollate" ci dice, nessuna cifra, solo ipotesi a tre zeri.
Le voci e le testimonianze dei giorni seguenti, si inseguono e si sovrappongono, spesso si contraddicono, la cosa certa è che alcuni focolai permangono ma troppo spesso non convergono in gruppi numerosi e compatti e sono facile preda degli spietati basiji. In gran parte della città sembra essere tornata una calma irreale, la città è presidiata, i percorsi più battuti dai manifestanti sono controllati dai guardiani notte e giorno, solo le voci dai tetti, puntuali, si fanno sempre più forti, come a dire che non sarà la paura a cancellare lo sdegno.
L'attività repressiva si intensifica e durante la notte i basiji irrompono nelle case picchiando e aprendo il fuoco su quanti sono sospettati di aver dato rifugio a manifestanti in fuga o di aver preso parte alla rivolta dei tetti. Il 24 Giugno, grazie a giorni di febbrili attività clandestine, piccoli gruppi cercano di convergere verso piazza Baharestan. La piazza, dove ha sede il parlamento iraniano, è completamente circondata e i gruppi più piccoli che rimangono isolati vengono letteralmente massacrati dai basiji, anche ignari passanti pagano la sola colpa di lavorare nei pressi della piazza. Decine di Basij appostati e nascosti sui tetti della moschea Motahari escono allo scoperto aprendo il fuoco sulla folla e disperdendo il corteo in formazione a suon di cadaveri.
Alcuni parlano di una nuova Enquelab, altri pronunciano la parola fine; le grida sui tetti, alla sera, sono assordanti e disperate. Il giorno seguente la mattanza di Baharestan, durante la consueta preghiera del venerdì, Ayatollah Khatami (da non confondersi con l'ex presidente della Repubblica islamica, il riformista Mohammad Khatami) ha dichiarato che i detenuti arrestati durante le manifestazioni saranno considerati "mokhareb". Oggi abbiamo notizia delle prime impiccagioni e scopriamo, con una stretta allo stomaco, che il governo sta mantenendo le sue promesse. Oggi, nonostante l'orrore e l'infamia, la nostra speranza è fiducia riposta nella resistenza e nel coraggio del popolo iraniano
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